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Samuel era stanco. Da oltre vent’anni, ormai, si ripeteva la stessa storia: a settembre cominciava la stagione della caccia, per finire qualche mese dopo. Un tempo, da quelle parti, per tutto l’arco dell’anno c’era solo il silenzio della campagna, mentre ora l’andirivieni di grossi fuoristrada, le urla dei cacciatori e il chiasso dei bivacchi, a festeggiare l’uccisione di qualche cinghiale, avevano trasformato l’autunno in una stagione fastidiosa.

L’uomo aveva presentato decine di esposti e alcune querele, ma invano. Adesso quella era una zona venatoria e l’agricoltore doveva accettarlo. Ma come rassegnarsi a tutte quelle cartucce che sporcavano i suoi campi e che nessuno portava mai via dopo la caccia? E come dimenticare, soprattutto, l’assassinio dei suoi due gatti, erroneamente uccisi da qualche cacciatore? Samuel sapeva che gli animali erano stati ammazzati apposta, come rappresaglia per la sua ultima querela. E sapeva anche chi fosse il colpevole, ma nessun carabiniere lo aveva mai ascoltato.

«Non ci sono prove, signore, mi dispiace» gli avevano sempre risposto.

Ma Samuel ne aveva abbastanza. Aveva preso l’abitudine, negli ultimi anni, di augurare buona caccia a tutti i cacciatori che incontrava: un dispetto da poco in confronto a quello che doveva sopportare lui. Gli sguardi che riceveva in risposta gli facevano capire che il suo augurio aveva colto nel segno.

Fu nel mese di dicembre che Samuel ebbe finalmente la sua rivincita. Seguì il cacciatore attraverso i campi, senza farsi vedere, e attese che rimanesse solo. Due ore dopo, quando l’uomo poggiò il suo fucile sul tronco di un albero per orinare, Samuel si avvicinò silenziosamente e, indossando i guanti, gli prese l’arma. Sparò due volte, la prima al pube e poi al volto.

Al maresciallo dei carabinieri che lo interrogò, come probabile indiziato della morte del cacciatore, rispose: «Non ci sono prove, signore, mi dispiace».

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Samuel era stanco. Da oltre vent’anni, ormai, si ripeteva la stessa storia: a settembre cominciava la stagione della caccia, per finire qualche mese dopo. Un tempo, da quelle parti, per tutto l’arco dell’anno c’era solo il silenzio della campagna, mentre ora l’andirivieni di grossi fuoristrada, le urla dei cacciatori e il chiasso dei bivacchi, a festeggiare l’uccisione di qualche cinghiale, avevano trasformato l’autunno in una stagione fastidiosa.

L’uomo aveva presentato decine di esposti e alcune querele, ma invano. Adesso quella era una zona venatoria e l’agricoltore doveva accettarlo. Ma come rassegnarsi a tutte quelle cartucce che sporcavano i suoi campi e che nessuno portava mai via dopo la caccia? E come dimenticare, soprattutto, l’assassinio dei suoi due gatti, erroneamente uccisi da qualche cacciatore? Samuel sapeva che gli animali erano stati ammazzati apposta, come rappresaglia per la sua ultima querela. E sapeva anche chi fosse il colpevole, ma nessun carabiniere lo aveva mai ascoltato.

«Non ci sono prove, signore, mi dispiace» gli avevano sempre risposto.

Ma Samuel ne aveva abbastanza. Aveva preso l’abitudine, negli ultimi anni, di augurare buona caccia a tutti i cacciatori che incontrava: un dispetto da poco in confronto a quello che doveva sopportare lui. Gli sguardi che riceveva in risposta gli facevano capire che il suo augurio aveva colto nel segno.

Fu nel mese di dicembre che Samuel ebbe finalmente la sua rivincita. Seguì il cacciatore attraverso i campi, senza farsi vedere, e attese che rimanesse solo. Due ore dopo, quando l’uomo poggiò il suo fucile sul tronco di un albero per orinare, Samuel si avvicinò silenziosamente e, indossando i guanti, gli prese l’arma. Sparò due volte, la prima al pube e poi al volto.

Al maresciallo dei carabinieri che lo interrogò, come probabile indiziato della morte del cacciatore, rispose: «Non ci sono prove, signore, mi dispiace».

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